INTERVISTA ESCLUSIVA – Francesco Colella racconta la decisione di schierarsi contro il suo personaggio Carlo Cosco in The Good Mothers!

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In uscita il 5 Aprile su Disney+ è la nuova serie originale italiana, The Good Mothers, vincitrice del “Berlinale Series” alla 73° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, un’opera corale e sfaccettata che racconta la storia vera di tre donne, cresciute all’interno dei più feroci e ricchi clan della ‘Ndrangheta, che decidono di collaborare con una coraggiosa magistrata che lavora per distruggerla dall’interno. Noi di Survived The Shows abbiamo avuto il grande piacere di parlare con Francesco Colella dell’esperienza in The Good Mothers, lo studio del suo personaggio, Carlo Cosco, nonché l’origine della sua passione per la recitazione. Trovate l’intervista completa qui di seguito!

INTERVISTA ESCLUSIVA – Francesco Colella racconta la decisione di schierarsi contro Carlo Cosco, il suo ruolo in The Good Mothers!

Qual’è la caratteristica di Carlo, nonché della sceneggiatura in generale, che più ti ha affascinato e ti ha spinto a dire sì a The Good Mothers?

FRANCESCO COLELLA: Ho accettato questo ruolo perché l’ho preso come una sfida e il ruolo è estremamente respingente. Di fascinazione rispetto al ruolo, anche quando l’ho letto, non aveva nulla perché questo personaggio non mi affascina.

È proprio questa privazione di fascino e seduttività che ha fatto in modo che io accettassi questa sfida.

Perché normalmente succede che quando si fanno dei personaggi che agiscono in maniera feroce, sono dei portatori di morte e si pensa di volergli conferire del fascino, pur nel loro mondo fatto di abiezione. Perché se ne fa un film e si cerca di innestare di umanità questi personaggi nonché di fascino cinematografico. Ma personaggi del genere non concedono nulla di tutto questo, e io mi sono dato il compito di non concedere nulla a questo personaggio. Dandogli il disprezzo dovuto per poterlo raccontare e cercare di trasmettere quel tipo di deserto di abiezione che lo abita.

Anche perché queste storie sono reali e innestate nella nostra società e sembra anche un po’ di tradire il mio lavoro, se dovessi renderle affascinanti. La gente deve poter capire quanto possano essere repellenti le esistenze di certe persone. E quindi ho cercato di lavorare ogni giorno su questo personaggio e di rigettarlo via a fine giornata per non sentirmene contaminato interiormente. Perché io sono un attore, ma anche una persona. Si tratta di una ricerca di equilibrio costante ed è stata la mia più faticosa ricerca.

Come mi è capitato già di dire, io non posso prevedere gli effetti del mio lavoro, ma stabilire i principi da cui partire. Ed i miei sono dei principi per i quali a un certo punto ho deciso di schierarmi ovviamente totalmente contro questo personaggio.

In certe occasioni non è vero che non si debba giudicare il personaggio che si interpreta, ma lo si può fare e lo si può veramente allontanare da sé, disprezzare, sentirne tutta la repulsione per avere poi anche quella libertà di tirarlo fuori in tutte le sue sfaccettature. Che sono quelle che, come nella realtà, portano morte, sopprimono esistenze. Fanno vivere persone e donne in un’atmosfera di vessazione, violenza e repressione, considerano gli affetti come dei territori privati, scambiano l’amore per il possesso e non hanno alcuna aspirazione se non quella di avere potere, vivendo tra l’altro una vita da miserabili, il cui motore è dato dai soldi, la smania per il denaro e soprattutto il potere sulle persone.

Dal momento che vi trovate a raccontare una storia tratta dalla nostra realtà, che valore ha per te raccontare queste storie al pubblico e che messaggio speri che abbia lasciato The Good Mothers?

Le storie, se ben raccontate, servono a raccontare noi stessi. A riconoscerci, a illuminare zone d’ombra che non sono illuminate, a far capire dove in certe parti del nostro mondo vivono disagi e una storia del genere serve a raccontare storie di donne o di persone che sono per la maggior parte inascoltate. Se poi si pensa che fenomeni come la ndrangheta sono molto poco raccontati – storie di questo genere dovrebbero stare sempre nel dibattito pubblico, dovrebbero sollevare indignazione, confronti, ma tutto questo non c’è. Il fatto che non ci sia non è una fatalità, oggi più che mai questa specie di cultura secondo la quale non bisogna mai tirar fuori gli spettri dal proprio armadio.

Quale società civile realmente evoluta, rimuove quelli che sono i suoi punti oscuri? La crescita dignitosa di una società o di una nazione passa attraverso lo sguardo anche verso i propri fantasmi, punti oscuri, obiezioni e i propri errori. E quindi le parti repellenti che una società può avere dentro di sé devono essere tirate fuori ed a questo serve crescere, evolversi e creare una civiltà più evoluta. Che poi si faccia attraverso una piattaforma, uno spettacolo teatrale, o la letteratura non cambia, ma a questo serve.

Dal punto di vista attoriale invece, quale è stata la sfida più grande che hai affrontato in questo progetto?

La prova è stata quella di non contaminarmi interiormente con questo personaggio. Una volta raggiunta questa distanza, io lo lasciavo andare in tutte le sue azioni spregevoli. E quindi la guardia alta che tenevo era soltanto per permettermi, a chiusura di giornata. Di poterlo veramente gettare via per poi riprenderlo il giorno dopo.

INTERVISTA ESCLUSIVA – Francesco Colella racconta la decisione di schierarsi contro Carlo Cosco, il suo ruolo in The Good Mothers!

Parlando invece del lavoro sul set per questa serie, come descriveresti la tua esperienza a lavorare in un progetto cosi italiano ma allo stesso tempo internazionale?

Che sia stato un occhio esterno, non fa differenza se non nel fatto che mi auguro che ci siano anche più occhi interni a raccontare queste storie. Tuttavia, si è aggregata una comunità per raccontare questa storia ed è anche bello che sia una comunità nazionale e internazionale, anche perché la ndrangheta riguarda il nostro paese e riguarda anche gli altri paesi, perché è una delle più feroci e più espanse organizzazioni criminali esistenti. Lo sguardo di Julian, per esempio, del regista, è stato lo sguardo di una persona che a maggior ragione, proprio perché appartiene ad un’altra cultura, ha studiato così tanto e ci ha messo un’attenzione forse proprio maggiore. Da questo punto di vista, è stato di una serietà e un rigore, insieme anche ad Elisa Amoruso, che si può vedere in questa serie.

Io credo che l’originalità e la forza di questa serie stia nel fatto che non è incline a epicizzare niente e non spettacolarizzare nulla, ma raccontare con grande rigore questa storia. Questa è una cosa che secondo me già esisteva nella nostra tradizione cinematografica, ma che si sia andata un po’ perdendo.

Quando dico che ci sono stati grandi maestri, come per esempio Francesco Rosi ed Elio Petri, che in qualche modo raccontavano attraverso il loro linguaggio cinematografico delle storie potenti che riguardavano il nostro paese, prendendo un punto d’osservazione fortissimo, schierandosi e da quel punto di osservazione col loro sguardo, tirando fuori in maniera ancora più potente e plastica le contraddizioni feroci del nostro paese. Io penso che questa serie si innesti in quella tradizione e sono contento di questo perché è la dimostrazione che si può fare e che le persone stanno in ascolto e in osservazione di queste storie e questo è bello. In qualche modo anche lo sguardo rigoroso, attento, lucido e serio rispetto a questa serie è importante e la rende importante.

Com’è stato creare insieme al resto del cast, in particolare con Micaela Ramazzotti, Gaia Girace e Andrea Dodero, tutta questa intricata rete di rapporti che vedremo nella serie?

È stato un grande rapporto di complicità. E le cose assumono una prospettiva e dimensione diversa. Ripeto, quando sei al servizio di una storia importante, nessuno sgomita per la propria espressività personale, ma si crea un’aggregazione naturale, non solo tra gli attori, ma anche con tutta la troupe in generale c’era una complicità, un grande senso del lavoro. C’era una sceneggiatura sicuramente già ricca e rigorosa, ma poi li dentro cercavamo di far vivere le cose, parlandone, vedendo cosa sarebbe successo attraverso la guida dei nostri registi, attraverso le nostre proposte. Io credo che siamo stati tutti felicemente ispirati e lo dico senza riserva e senza esitazione. Quando c’era magari una giornata più difficile o faticosa per qualcuno, l’ispirazione dell’altro lo aiutava a risollevarsi.

INTERVISTA ESCLUSIVA – Francesco Colella racconta la decisione di schierarsi contro Carlo Cosco, il suo ruolo in The Good Mothers!

Il ricordo più bello che ti porterai nel cuore di questa esperienza.

I ricordi sono innumerevoli, quando tu affronti un film, una serie, come in questo caso, ti porti dietro intere giornate in cui lavori. A me piace anche quella che è la vita di una comunità, perché si forma una vera e propria comunità, come fosse un paese fatto di tante persone, dai macchinisti agli elettricisti, ai make-up artist, ai parrucchieri, a tutte le maestranze, nonché alla parte materiale e registica.

Anche il fatto che ci ritrovassimo la sera a cena insieme o in albergo la mattina presto e poi a lavorare, tutta questa vita di comunità è un ricordo bellissimo.

Poi quando la serie è stata conclusa e abbiamo voluto festeggiare il nostro lavoro e anche le produzioni hanno festeggiato il nostro lavoro e allora ci sono quei momenti, quando vai a fare la prima e ti vesti elegante, che possono essere anche dei momenti appariscenti e te li vivi con gioia, con la giusta leggerezza.

Siccome questo lavoro a volte mi crea delle assenze dai miei figli, per quanto credo che siamo veramente molto uniti, ho voluto dare un senso all’assenza di quel periodo nel quale ho fatto la serie a mio figlio. Fargli capire cosa c’era dietro e allora l’ho portato con me alla premiere.

Sa benissimo che il papà non vive di riflettori, ma il fatto che fossimo insieme, vestiti eleganti, in un bell’albergo e che lui abbia visto il papà parlare di questa serie, che vanta anche argomenti seri, il fatto che lui abbia partecipato con me a questo rituale, quello è un bel ricordo, anche perché in quei momenti guardare mio figlio mi porta ad uno stato di realtà sereno, per niente performativo.

Facendo un salto nel passato fino alle origini della tua carriera come attore, com’è nata in te la passione per la recitazione? Com’è entrata nella tua vita?

Mi è sempre piaciuto, non mi ricordo perfettamente quando ho deciso di fare l’attore. So che fin da bambino ero molto attratto dalla rappresentazione. Quando ero piccolo, alle scuole elementari, un attore della mia città, Catanzaro, faceva spettacoli e mi prese come mascotte. Loro erano più grandi e da lì in poi ero sempre il più piccolo a partecipare a certi spettacoli che andavano in giro per la Calabria e tutto questo, all’inizio, era un mondo che mi piaceva perché era come una realtà parallela. Vivevo la mia vita scolastica, la mia vita familiare, di amicizia e nel frattempo, entravo in questo mondo strano, dove si legittimavano e si fabbricavano sogni di fronte a un pubblico. Questo è stato a volte un riparo da certe inquietudini, o meglio diciamo che le mie inquietudini della crescita, o anche certi piccoli grandi dolori, trovavano un loro linguaggio e una loro forma.

Quindi per me questa è stata una fortuna e poi da lì a decidere di farne una professione è stato abbastanza semplice.

A volte ho ammirato molto le storie invece di tanti miei colleghi che hanno deciso di fare le attrici o gli attori nonostante la volontà della famiglia, lottando fortemente. Questa forza che hanno avuto, di decisione, ha dato loro una struttura, una coscienza del crearsi una storia. Io a volte invece non ho questa coscienza, solo negli ultimi anni ho acquisito questa coscienza di voler costruire una storia mia, come persona e come attore. Però negli anni passati mi sembrava talmente un’emanazione naturale.

Il fatto che si dica che io non distingua la vita privata dalla mia professione non vuol dire che non abbia senso della realtà.

È proprio perché sono aderente al principio di realtà, e siccome leggo questo mestiere di recitare come una lente per leggere anche il mondo, è un mezzo di conoscenza per me, e la mia vita è fatta dei miei affetti, degli incontri, dei miei viaggi come del mio lavoro e le cose si nutrono tra loro.

INTERVISTA ESCLUSIVA – Francesco Colella racconta la decisione di schierarsi contro Carlo Cosco, il suo ruolo in The Good Mothers!

Tra tutti i progetti a cui ha lavorato finora, ce n’è uno a cui sei per particolarmente affezionato?

Quelli a cui sono più legato sono quelli che hanno avuto meno risonanza o quelli che magari ti sono sembrati progetti che sono stati poco ascoltati. Hanno avuto poco pubblico, e sai, questo lavoro è fatto anche di ritorni, e quelle volte nelle quali avresti voluto che una storia si espandesse di più sono le difficoltà che mi hanno reso più solido nella professione. Quindi i progetti a cui sono più affezionato sono i progetti “mancati”

Se potessi dare un consiglio a tutti quei giovani attori che cercano di intraprendere i primi passi all’interno di questo ambiente, o nel mondo dello spettacolo in generale, che consiglio daresti basandoti sulla tua esperienza?

Non so dare consigli, posso soltanto dire di non pensare agli effetti di questa professione – in termini di popolarità, soldi che si possono guadagnare, visibilità. Questi sono effetti che non si possono controllare e non sono sicuramente i motori che possono accendere una vocazione. Un’ispirazione è il principio di piacere che deriva da questo mestiere e deve essere sicuramente nutrito da uno studio attento, e anche da un’educazione culturale. Il consiglio che posso dare a qualcuno che vuole fare l’attore è di leggere i grandi romanzi, dell’Ottocento del Novecento, ma non per un fatto meramente culturale.

Quando leggi delle storie, ti affacci all’arte, alla poesia, alla pittura, al teatro, è lì che trovi la forma di quello che ti accade, se hai dei compagni di viaggio che te lo raccontano.

Questi compagni di viaggio possono chiamarsi Balzac, Dostoevskij, Tolstoj. Non è dato a un attore di essere colto o un intellettuale, però sono della convinzione che le emozioni ci invadono, ma i sentimenti si possono apprendere. E questo può essere il sangue in un cimento per un lavoro di attore. Non basta l’istinto, se uno ha il talento va bene, ma si può ripiegare in se stesso. Ci vuole costanza, una certa resistenza. A me piace dire – perché è successo anche a me – che l’identità di un attore si forma soprattutto quando crede di non essere ascoltato o considerato, soprattutto in quei momenti in cui non si lavora.

A me è capitato tante volte di aggirare tutto dentro di me o di sentirmi fallimentare perché magari non venivo chiamato per lavorare.

Mettevo in crisi ogni cosa, però è stato in quei momenti che io ho trovato realmente la mia voce di attore e mi sono fortificato. E qualora si decida di abbandonare, non è detto che sia un male, vuol dire che magari quella non era quella la vocazione.

INTERVISTA ESCLUSIVA – Francesco Colella racconta la decisione di schierarsi contro il suo personaggio Carlo Cosco in The Good Mothers!

L’intervista con Francesco Colella è stata condensata per ragioni di chiarezza e lunghezza.

The Good Mothers, con Gaia Girace, Valentina Bellé, Barbara Chichiarelli e Francesco Colella, debutta su Disney Plus il 5 aprile. Date un’occhiata al trailer qui in seguito!
The Good Mothers, con Gaia Girace, Valentina Bellé, Barbara Chichiarelli e Francesco Colella, debutta su Disney Plus il 5 aprile. Date un’occhiata al trailer qui in seguito!

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Chiara

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